Anno 1843

Si torna a parlare della Chiesa di S. Cristina, dopo il terremoto del 1805. Riferisce così il Sindaco Capone: Dopo pochi anni venne ricostruita a spese della Cassa Comunale. Le volte della stessa vennero costrutte a cementi, tranne quella delle due braccia della Crociera e del Coro, le quali sconsigliatamente vennero fatte a cassone con semplice gesso. Dopo l’elasso di poco tempo si viddero screpolate e l’Amministrazione Comunale si è veduta sempre nell’obbligo a dare dei ripari onde non farle crollare; ristauri per altro che sono riusciti di poca durata.

Nell’anno scorso, sia che attribuir si debba all’impeto de’ venti, o che le piccole liste di legno che sostenevano il gesso si fossero cariate, cadde in buona parte una di esse e miracolosamente non vi perì cittadino alcuno di quelli che ascoltavano la S. Messa. Dopo pochi mesi l’istesso guasto avvenne in quella del Coro, e la terza minaccia tuttavia ruina. In tale stato di cose in seguito di una perizia che all’uopo ho fatto redigere, si giudica indispensabile la ricostruzione di dette tre volte, da farsi a mattone, onde renderle durevoli, e mettere in sicuro la vita de’ Cittadini e del Capitolo.

La spesa è di 177,50 ducati. Bisogna destinare a tale scopo la somma stanziata per la traversa, se si vuole provvedere.L’Arciprete D. Valentino Vignone legge, “alla presenza del Capitolo convocato per la formazione de’ nuovi Statuti Capitolari, la Prolusione Istorica descrittiva della Chiesa Insigne Collegiata di S. Cristina” .

Per la sua importanza storica, la relazione viene riportata quasi integralmente:
“Priacchè disperda interamente il tempo nel bujo della dimenticanza la memoria delle notizie, che in questa Santa Chiesa riguardano l’origine con le vicissitudini, alle quali è stata in ogni tempo soggetta, mi conosco nel sacro dovere Fratelli dilettissimi, di perpetuarle sino alla conoscenza dei nostri più tardi successori, sempre però vere, inalterate sempre, sempre figlie della maestra delle grandi cose, e tali quali ci vennero dagli antichi storici trasmesse. Non disdegnarono questi di gittare i loro sguardi sulla rinomanza delle più vetuste fra le Città dei Pentri per farli quindi riverberare nel futuro tempo, come il sacro fuoco di Noemia, ascoso ad industria dai Sacerdoti pria della Babilonia cattività; fu poi veduto riardere sull’altare degli Olocausti dopo rifabbricato della desolata Gerusalemme le mura. Che poi tutte si volessero a’ nostri posteri trasmettere le notizie che la nostra Patria interessano fin dacchè resisteva superba alle Aquile Romane, che finalmente vittoriose dispiegarono le ali conquistatrici sulla terra de’ Pentri, anzicchè restringerle allor alla somma di quelle che ci riguardano, dovremmo invece tuttavia riguardarne la origine, la condotta progressiva e l’ingrandimento sotto tutti i rapporti considerato, sociale, cioè, politico religioso, ed estensivo sempre a quello delle altre Città coeve, che gloria non inferiore si acquistarono nelle Sannitiche contrade. Ma no, non sarà questo il fine del mio dire, e penetratato da un sacro sentimento di più sacra filantropia, non intendo fare altro che dar durata alle notizie che la nostra Santa Chiesa unicamente interessar potranno.

Sapranno così i nostri più tardi posteri che la Chiesa di Sepino pareggiò per più secoli con le altre tutte del Sannio, che menano oggi a gloria le proprie onorificenze; parlo di Bojano, Alife, Telese, Isernia ed altre, e che se oggi vedesi essa la nostra Chiesa non decorata del glorioso titolo di Cattedrale, annunzia però a quelli, che al presente la contemplano, il destino dei Numi sbandito dall’Olimpo, quando ridotti alla vile condizione di pascolare armenti, e maneggiare aratri, colla nobiltà della fisonomia, e colla purità del sangue, che ad essi nelle vene scorrea, si appalesavano sempre per quelli che erano stati un tempo.

L’antichità della nostra Santa Chiesa si confonde, a dire il vero, con quella della nostra Patria, e senza risalire, come potremmo fare volentieri, al Secolo degli Apostoli, il primo che sappiamo di avere a Sepino la Episcopole Dignità occupato, fu nell’anno 464 dell’era della rigenerazione il Vescovo Palladio, che intervenne al Concilio Romano celebrato sotto il Pontificato d’Ilario, e ne sottoscrisse gli atti così: Palladius Episcopus Saepinatis; atti che per testimonianza di Ughelli … nella sua Italia Sacra, originalmente si conservano nella Vaticana Biblioteca.

L’immediato successore di Palladio nella Episcopal Cattedra di Sepino sappiamo essere stato il Vescovo Proculejano, ed intervenne questi del pari ai Concili Romani III, IV, V e VI tutti celebrati sotto Simmaco Papa; Concili a’ quali non mancò di intervenire Lorenzo Vescovo di Bojano, dei quali tutti si conservano gli atti nella Biblioteca Vaticana contemporanea-mente così sottoscritti: Proculejanus Espiscopus Saepini – Laurentius Espiscopus Boviani.

Ci venne in altri tempi, da noi non molto lontani, opposto non doversi alcuna credenza prestare all’istorico Ughelli per essere stato tale rinomato scrittore illuso dai falsi rapporti dei Sepinesi in tempo che trattava la penna per non defraudare la posterità delle più onorevoli ed interessanti notizie.

Vada così la cosa; ma a disdoro dei nostri opponenti, ci troviamo nel caso di riflettere che se l’Ughelli fu, come si crede, ingannato, potrà credersi che lo siano stati ugualmente l’Ostiense, il Sarnelli, il Ciarlante, con tutti gli altri antichi e moderni Scrittori, che per gloria del vero non hanno fatto silenzio dell’antichissima Santa Chiesa di Sepino? Potè forse essere del pari illuso il Padre Arduino, che nella Collezione dei Concili al Tomo Terzo pagina 40 riporta i precitati Concili così sottoscritti da due Vescovi di Sepino?

Facciano dunque silenzio i nostri oppositori, e per non perdere di vista le cronologiche notizie riguardanti la nostra Chiesa, facciamoci ad osservare che desse neppure mancano fra le svantaggiose vicende dell’ottavo secolo della cattolica rigenerazione, tempo in cui la iniqua e sacrilega persecuzione data specialmente ai Vescovi, e Clero da più iniquo e sagrilego Leone Isauro, e la spietata invasione dei Saraceni con alla di loro testa il barbaro Seodam infedele ed acerrimo nemico del Cristiano Culto, furono la nefanda causa perchè fossero stato coi Pastori dispersi i greggi. Fu questo il tempo in cui nella Campania e nel Sannio specialmente furono le Chiese vedovate dei propri Pastori, e dichiarate perciò come immediatamente soggette alla Santa Sede, per quanto ne attesta Carmine Fimiani. … Eccoci dunque contribuiti nella incontrastabile certezza di essere stata la nostra Chiesa per più secoli governata da propri Vescovi. E potrà mai credersi che, ristabilita la pace, e restuita la palma alle Chiese tutte del Sannio, dovè fra queste la solo Sepino proseguire ad essere la proscritta, la sola creduta indegna del proprio Pastore?

Preveggo le difficoltà che potranno addursi contro le mie asserzioni, di essere cioè innegabile che l’antica Chiesa di Sepino abbia avuto i suoi Vescovi, ma che questi cessarono colla distruzione dell’antica Città, di cui oggi con le pupille bagnate di lagrime guardiamo i robusti avanzi, e che disperse le reliquie degli antichi Sepinati per la orrenda invasione dei più orrendi barbari Saraceni, i quali seppero sterminare ciò che conservar volle la Romana potenza, si rifuggirino desse sulle inaccessibili alture dei monti, senza trasportare seco loro la gloria che la freggiava anche sotto la dura oppressione delle trionfatrici aquile Romane.

Alle questioni di fatto, si risponde di fatto. E per verità che non meno di tanto si conosce col gittare lo sguardo sulle Città tutte del Sannio, così come sono nel presente tempo. Bojano, Isernia, Alife, Telese, son desse le Città medesime che grave opposero la resistenza alle Romane Legioni, quando erano guidate dai Fabi e dai Papiri?

Se dunque questi attuali simulacri delle antiche e robuste Città dei Pentri non hanno di comune coi loro prototipi che il sol nome, oltre al suolo su cui quelle giacevano, e con tutto questo han conservato le antiche onoreficenze delle Sante Cattedre Vescovili, perchè, ripeto, la sola Sepino doveva esser la proscritta, la sola creduta non degna del proprio Vescovo? Ogni sano modo di analogicamente argomentare ci mena a conchiudere che o Sepino non sia stata mai coeva delle altre Città, che vantano rinomanza nel Sannio, o che se lo sia stata dovè con esse tutte subire le vicende istesse alternatamente buone ora, ora svantaggiose, secondo le varie circostanze del tempo, e delle politiche alterazioni dai medesimi tempi prodotte … è conseguenza di approvare e conchiudere che con tutte le Città del Sannio riacquistò Sepino il proprio Vescovo dopo sedate le tempeste nell’Italia, tutta posta in disordine dalla rabbiose invasioni dei barbari orientali.

Per verità neppure mancano notizie concernenti al nostro proposito anche dopo il decimo secolo della Cristiana credenza, e che sia così portiamoci per poco là fra le mura della Patria di Felice IV, di Vittoreo III, e di Gregorio VIII, a svolgere le antiche Metropolitane Scritture, e troveremo ragioni a credere di non andare errati nel proposto divisamento, mentre nella sua Italia Sacra tomo ultimo, pagina 526, riporta Ughelli la Cronaca Beneventana del Monistero di S. Sofia, donde rilevasi che nel mese di giugno del 1095 Ugone Conte di Bojano, e Ruggiero figlio del Conte Ridolfo donarono all’Abate di detto Convento per nome Machelviro, Castelvecchio picciol paesetto che giaceva sulla vetta di ameno colle a poca distanza da Sepino, donazione alla quale intervennero, e che sottoscrissero due Vescovi…Dalle riferite istoriche autorità ad evidenza si raccoglie che nel 1095 e 1113 aveva Sepino il proprio Vescovo che sottoscrisse gli atti delle donazioni unitamente al Vescovo di Bojano … Viene inoltre Sepino in tali donazioni equiparato a Benevento colle espressioni in esse usate, e riferite da Ughelli cioè in veteri Beneventana Civitate e poco dopo in veteri civitate Saepini.

Il titolo di Città, come nel presente tempo, allor non si concedeva che a quelle nelle quali risiedevano i Vescovi, e di fatto reggeva allora in Sepino l’Episcopale Cattedra il Vescovo Giovanni … Vi è in seguito tutta la ragione a credere che i Vescovi di Sepino avessero avuto la non interrotta durata sino al 1456, tempo in cui volle l’Onnipotente non resistere alle prevaricazioni di questi popoli, e scosse col volger di un ciglio fin dalle fondamenta la terra, per richiamarli nel diritto sentiero come tralignati dalla Santa Religione, e più di ogni altro gli Ecclesiastici, che, ingranditi dalle donazioni dei potenti, espiatorie delle loro iniquità, si eran perciò menati ad un lusso che loro non conveniva, e che fu poi la funesta cagione onde videsi affievolire quella purità di costume che fu istillata nel cuor dei veri credenti nei primi Secoli della Chiesa.

Dopo tante disvantaggiose vicende, che fecero disperdere il Santo deposito delle più religiose scritture fra le ruine di desolata Città si vide la dura occasione, in cui la prima volta si trovò la Cattedra di Sepino data in deposito alla Cattedra di Bojano, forse in virtù di ciò che leggesi nel canone XII del Concilio di Calcedonia, che ci dà buon motivo a credere che doveva tal deposito perdurare sino alla restaurazione della Città desolata, e finchè riprodotto si fosse il numero della popolazione falcidiata per allora dalle ruine degli edifizi, che gli uni sugli altri crollarono per la instabilità della convulsa terra … Mentre stava dunque la Chiesa di Sepino depositata alle provvide cure di quella di Bojano, siccome ci viene incontrastabilmente suggerito dalla infallibile autorità di un Santo Concilio, in cui ravvisar dobbiamo del Dio medesimo la voce, mentre stava risorgendo dalle sue rovine la nostra patria, e quanto prossimo all’antico splendore si disponeva a richiamare il prezioso deposito, che stava praticamente commesso alle cure del Vescovo di Bojano fu allora che la provata giustizia di Dio non contenta dei gastighi che afflissero l’Italia tutta con le invasioni, con le guerre, coi tremuoti, volle anzippiù sempre affliggerla con farle vedere in luride sembianze la morte, e così il desolante flagello della peste non tardò a venirle sopra, ed aspargere il terrore in tutte queste contrade nel 1656 … Detta pestilenza marcò per noi l’epoca sfortunata di troppo, come quella in cui cominciarono a disperdersi le più accurate notizie, che della nostra Santa Chiesa garantivano il decoro e le più fulgide onorificenze … Eccoci ad un punto di tempo in cui nulla di preciso più ci costa sulle alterazioni, alle quali doveva essere soggettta la Sepinate Vescovil Cattedra, e solo ci vediamo nella franchezza di poter ineluttabilmente asserire che Sepino conservò nel suo Arciprete il Simulacro di quei Vescovi, che forse mancarano dal 1456 per le finora esposte ragioni. Ci viene dettato da irrefragabili documenti, che questa Arcipretale Dignità quasi tutte in sé restringe le Prelatizie onorificenze, mentre nominato l’Arciprete, secondo l’antica disciplina della Chiesa dai voti del Clero, come unicamente praticavasi nella nomina dei Vescovi, non riconosceva la Canonica istituzione che direttamente dal Sommo Pontefice … Durò questo modo di onorifica nomina dell’Arciprete riservata esclusivamente ai voti del Clero sino al 1656, tempo in cui per la prima volta videsi frammischiato anche il popolo a tale nomina, e di ciò fu causa la lurida peste, che avendo ridotti a pochi gli Ecclesiastici, vi fu fatta la necessità di dover invitare anche il popolo alla elezione del proprio pastore.

Il primo ad essere stato così eletto ad Arciprete fu in detta epoca Giovanni Lucinio, che venne confirmato nella nomina fatta dal Clero e popolo con apposita Pontificia Bolla, e fu questa la prima occasione in cui questa Arcipretale Dignità fu riconosciuta come di gius patronato misto tra Clero e popolo, come ci contestano le innumere Bolle della Santa Sede spedite da detto anno 1656 sino al 1835, epoca molto vicina, quando l’attuale Sommo Pontefice felicemente regnante sul trono di S. Pietro, canonicamente confirmò nell’Arcipretale Dignità me che sono il maggiore dei peccatori, il più vile fra i servi di Dio … Stimo superfluo a tutta ripetere la serie cronologica de’ Vescovi che non mai ha disgiunto dal titolo di Bojano quello di Sepino, anzi giova in fine ricordarvi che l’ultimo Vescovo, che si credè maggiormente da questo titolo decorato fu Monsignor D. Niccola Rossetti, titolo che costantemente sostenne per quaranticinque anni dal 1774 al 1819, tempo in cui cessò di essere mortale, ed in cui fu sepolto nell’oblio questo titolo tanto glorioso per la nostra Chiesa, come discese fra gli orrori del Sepolcro l’onorato corpo di chi avealo menato innanzi con tanta decorosa pompa e gloriosa onorificenza … Questa Città, come abbiamo veduto, caduta per un cocervo di disgrazie nell’abbiezione, e seduta solitaria nella spessezza del proprio dolore per un secolo e più, dopo il 1656 non potè risorgere a novella vita, che al principiare dell’ottavo secolo dopo il mille. Fu allora che le scienze, le lettere, le arti, l’agricoltura incominciarono a svilupparsi dai sopiti sonni in ragione diretta della popolazione, che sempreppiù andava ad aumentarsi di numero, ed il primo passo del rinascente incivilimento non fu certamente diretto, che al punto a cui i voti di tutti convergevano.

Si elevarono perciò a dolce speranza quei benemeriti nostri maggiori di vedere presto restituita all’antico splendore questa Chiesa… La dipinsero perciò con vivi e commoventi colori alla Santità di Clemente XII, che stringeva fra le mani le Chiavi di S. Pietro nel 1739, e nella certa speranza di vedere soddisfatti i propri voti, implorarono il richiamo del Sacro deposito affidato al Vescovo di Bojano, e la reintegra in tutti i diritti della Cattedralità.

La Santa memoria del detto Sommo Pontefice rischiarata all’oggetto da una lotta e fedele relazione favorevolmente emessa dal Vescovo Manfredi, se non rese compiutamente paghe, non tardò però di contentare in parte le fervorose dimande di quei filantropi nostri maggiori, e con Bolla dell’anno istesso, munita di Regio assenso, dichiarò Insigne Collegiata questa Chiesa … Fu con l’anzidetta Bolla in perpetuo riservata la nomina dell’Arciprete al Capitolo, Clero e Popolo tutto…”. (APS)